Mi piace quella misura di passi con cui Michelstaedter si muove. Si muove dal basso, consapevole. A 23 anni riesce ad avere la forza di comprimere il tempo. E’ un lavoratore del pensiero Carlo. Due sono i concetti fondamentali, la persuasione ovvero il tentativo sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere in possesso di se stessi e la retorica, l’apparato di parole, di gesti, d’istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla persuasione. Bisogna subito sradicare una deduzione errata, Carlo non pensava da vecchio, non aveva raggiunto un pensiero alto perché prematuramente maturo. Anzi il suo pensiero è giovane e rimane tale, nonostante vige la più comune delle opinioni che poi nasconde calunnia da mediocre intellettuale: “Carlo vecchio filosofo morto molto giovane”. Questo vile tentativo è il nostro modo di operare attraverso la retorica quotidiana piena di compromessi per adempire le proprie necessità. In ogni caso anche quando scegliamo di morire, non siamo capaci di controllare la morte. Nel frattempo però ci illudiamo di controllare la vita. Ecco perché la vita ci è tanto cara perché pensiamo erroneamente di controllarla. Ci sono cose però che solo in vita possono capitare e sono uniche e meravigliose, per esempio fare l’amore, avere dei figli. Questa è la tragedia. Carlo è morto a ventitre anni. Carlo però, tragico giovane eterno, scrive una tesi in filosofia. La persuasione e la retorica. Avrei voluto vedere la faccia dei professori quando hanno letto una tesi del genere. Forse non c’è da stupirsi se l’hanno ignorata. Superava molto la loro sensibilità, quasi una vibrazione di così alta frequenza che l’umanità aveva bisogno di un nuovo artefatto per decifrarla. Quel colpo di rivoltella, nel lontano 1910, riecheggia la tragedia in un urlo di rabbia. Carlo non è un genio, ma un erudito a pieno titolo, un lavoratore-filosofo. Perciò sappiate, giovani di tutti i tempi tra voi c’è Michelstaedter, per qualsiasi ribellione, quest’opera è un manuale perfetto. Potete mettere in crisi tutti i vostri professori se saprete ben decifrare questa vibrazione,
e nell’oscurità creare da sé la vita.
Fare di se stesso fiamma. Quasi un richiamo a costatare di persona. A verificare con i propri sensi con il proprio corpo. Per fare cosa? Per farsi un’idea. Di cosa? Del mondo. Pensare è? Oltre ad essere. Non importa l’essere stato ma il divenire. Una cosa naturale nonché utile. Per coltivare il pensiero bisogna conoscere, sapere. Per vivere coerentemente con ciò che veramente si pensa, bisogna diffidare di qualsiasi professore, contro ogni scuola di pensiero .
“Ora vado da solo, discepoli miei! Anche voi andatevene da soli! Così io voglio.
In verità, io vi consiglio: andate via da me e guardatevi da Zarathustra! Ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato.”.
Questa Virtù che dona manca ancora di più nel nostro reale, nei nostri corridoi universitari. Grigia realtà, professori daltonici, nel colore studentesco.
Allora?
“Un giovane educato in collegio religioso si volge per reazione a tutto quanto sa di ribelle alle leggi umane e matura il cervello nelle speculazioni della psiche dell’uomo e del mistero della natura. Egli troppo vede e nel suo animo amareggiato la fonte del sentimento inaridisce. Egli lo sente e ne prova dolore, vuole perciò lanciarsi nella vita per eccitare con le sensazioni più forti le fibre paralizzate dell’animo suo. E lo fa.”.
Chi si ferma alle parole è perso, nella quotidianità. Ma è forse utopico fare guerra alle parole con le parole? No. E’ divinamente divertente, è un gioco. Carlo gioca.
“Vita, morte, /la vita nella morte, /morte, vita /la morte nella vita”
Non c’è nulla di triste, di disperato nel gioco. Carlo gioca parlando con un amico in greco, si diverte. Noi abbiamo dimenticato, pensiamo che il gioco sia solo una dimensione ludica e superficiale. Invece il gioco insegna la vita o la morte. La società degli uomini bambini non gioca. È un paradosso. Infatti, il pensiero di Michelstadter rimane attuale, noi giochiamo solo per premio, in modo retorico si chiama educazione.
Che succederebbe se i bambini imparassero giocando? Carlo consapevole di giocare, sa di non sapere. Che ci fa Socrate all’inizio del ‘900? Allora torna tutto? No. Siamo noi che veniamo e andiamo, una sola volta. Carlo lo fa da ribelle, vivo, singolo e lavoratore.
“Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni.”.
Questa definizione di Junger sintetizza meglio uno dei tratti più efficaci di tutte le opere, di Carlo Michelstaedter. Dalla Persuasione e la retorica e alle Appendici critiche, al Dialogo della salute e La melodia del giovane divino, sino alla raccolta di poesie. Il tema centrale è il Ribelle e il diverso. La libertà di dire no.
“Al mio Emilio
in memoria delle nostre sere
e a quanti giovani
ancora
non abbiano messo
il loro Dio
nella loro carriera”
La parola "ancora" in questa dedica, che apre il Dialogo della salute e altri dialoghi, è un sorriso, è una volontà, è ogni volta un’alba nuova, una rinascita.
La critica filosofica che Michelstaedter innalza, l’accusa nei confronti della retorica, che vieta la possibilità di persuaderci nella concretezza, di prendere visione e avere coscienza dell’impossibilità di controllare tutto, e soprattutto la vita e la morte, è magnificamente resa in un linguaggio scarno, poetico, perché Carlo è un giovane innamorato, la sua volontà di potenza ha sì una finalità filosofica ma è sempre supportata interiormente dalla poesia. Così le cose non sono due, filosofia e poesia ma una sola, in quanto intrecciandosi, continuamente, esistono soltanto in rapporto e non sono scindibili tra di loro. Un po’ come succede in tutti noi con la razionalità e l’emotività.
La ragione, fredda e spietata intuisce che siamo come il peso che pende e affinché pende, dipende dal gancio, e per quanto lo vogliamo soddisfare il nostro “Io” con le necessità quotidiane, con la miope illusione della retorica, sganciato il peso per possedere la vita stessa esisterà sempre un punto più basso che quello raggiunto da dove nascerà più forte il desiderio di raggiungerlo. Così infinitamente ogni volta soddisfatto della sua quotidianità l’uomo usa la retorica per occultare l’impossibilità di possedere se stesso. L’analisi filosofica che fa alla sua società è affilatissima, e non si ferma qui, prova di una freschezza giovanile il pensiero di Michelsatedter non è affatto immediato, è un pensiero inattuale e se lo è ancora oggi, vuol dire ci ha visto a lungo nel tempo, a ventitre anni.
La poesia di Michelstaedter, è delicata. Il canto è quello delle crisalidi. La fragilità che sussurra uno stato precario e la vittoria che esalta il più debole, quello che sa di non sapere, il più umile, il pedone che misura coi suoi passi il terreno.
Bisogna però uscire dall’area decadente. Non è catalogabile il flusso poetico di Carlo, come del resto il suo inattuale pensiero filosofico. Le poesie composte tra il 1905 – 1910, risentono quasi nulla del clima letterario di quegli anni. La vocazione poetica non è solo quella di spingersi oltre la vita, oltre il suo confine, che non è detto che il limite sia la morte, ma spingersi oltre e basta, al di là, comprimere il tempo non per vedere il futuro o cambiarlo. Carlo lavora nel presente, ed è inattuale in versi e pensieri, vita e morte, “l’universo e ‘l nulla”. Vivere, il presente in ogni futuro.
“E la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita
Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte”
A volte si ha l’impressione, leggendo, che le parole si fondono tra di loro anche in termini d’armonia, il suono è soprattutto umano, per quanto criticato l’uomo rimane il centro. L’asse è il corpo umano. il punto d’incontro tra la vita e la morte non è la malattia, è il corpo. Piccola svista di Campailla Sergio, un professore . Il ritmo è dettato da una sorta di rima del pensiero che ascolti mentre leggi a voce bassa, piano e magari ripeti perché ti sembra un gioco di parole (infatti lo è), non cogli subito e vai avanti finché, quelle parole non ti tuonano in testa, come le favole che fanno dolcemente fantasticare i bambini.
Ma qual è il valore in una favola? È la morale.
Ora immaginate, la terra nell’universo, il passaggio di una cometa, e voi che assistete ad un loro dialogo:
“TERRA: Eccola qui ancora, la vagabonda!
COMETA: UFFFF…
TERRA: Prudenza per dio! Guarda un po’ dove vai!
COMETA: Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si vede!
TERRA: Già, ma intanto… No perdio! Fa attenzione!
COMETA: Meglio non far attenzione che attender sempre ciò che non vien mai.
TERRA: Accidenti! Ma proprio addosso a me deve venire! Ora mi spazza! Si può dar di peggio?!
COMETA: Sì, i pianeti!
TERRA: Ma guarda che lì vai a batter in Marte – questo si chiama esser ben distratti!
COMETA: Meglio distratti, che attratti, e contratti e rattratti…
TERRA: Tu intanto sei ogni volta più stravagante, e più nebulosa. Di un po’, quando la finirai di fare la vagabonda?!
COMETA: Quando tu la finirai di fare di far “la coda”.
TERRA: Sarebbe ora che tu mettessi giudizio, - e lo dico pel tuo bene.
COMETA: Già, o per dormir i tuoi sonni tranquilli, - vecchia ipocrita. Tu e Marte e Venere…e quanti vi siete regolate le vostre orbite col centimetro per aver tutta la via comoda e sicura e rotolarvi in santa pace e far la corte…
TERRA: Al sole, sicuro…
COMETA: Già, il sole. – Voi fate tutto in nome del sole, anche la notte!”
C’è chi dissolve le proprie energie in una critica strutturalista. Così si passa da nome a nome, da citazione a citazione, da ricerca a semplice compilazione, dal contenuto alla forma, dalla finzione alla retorica, dalla menzogna all’ipocrisia che altro non è, che menzogna della menzogna. Quando il contenuto non viene per primo in ordine d’importanza e lo strumento della critica diventa il fine stesso, significa che il nostro tempo è maledettamente perverso. Allora, non rimane che scegliere di esser schiavi o ribelli. Michelstaedter, non è drammatico. È tragico. È inattuale o meglio è attuale nel futuro.
“Quando al dolce e al giuoco si sostituisca il guadagno, “la possibilità di vivere” – “la carriera”, “la via fatta”, “le professioni” – lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare bere e dormire e prolificare. Così ne potremmo fare un degno braccio irresponsabile della società:
UN GIUDICE, che giudichi impassibile, tirando la proiezione dalla figura che l’istruttoria gli presenti sulle coordinate del suo codice, senza chiedersi se questo sia giusto o meno. UN MAESTRO, che tenga 4 ore al giorno, 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non si adattino alla disciplina, - e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile, che ne porterà le conseguenze per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto.
UN BOIA, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida. Perché egli non veda mai altro in tutto ciò che quell’ufficio indifferente su cui non si discute ma che gli da i mezzi per vivere, e sia strumento inconsapevole.
Così se ne facciamo un uomo di SCIENZA, avranno resa possibile l’oggettività. Infatti egli sarà abituato dalle fasce in su a sapere che altro è lo studio, altro è il giuoco. Così egli si potrà mettere a sciogliere problemi filosofici muovendo i concetti che le norme scientifiche insegnano, senza mai curarsi del loro valore.”.
In fondo viviamo in modo inattuale tutti, non possediamo la vita, ma saperlo è difficile, bisogna apprenderlo. Carlo vuol vivere un gradino oltre la possibilità di vivere se stesso.
Carlo è la forma incarnata del selvaggio, non per le sue idee, ma per natura.
L’io pendolante vaneggio nelle tracce del pedone, le cerco con cura dietro una attenta follia, senza odorare soltanto quella effimera forma. Assume strana genesi aspirare all’istante in termini puramente d’intuito ma non so quale spirito armeggia il mio essere attentato.
Fanno sorridere a volte quei piccoli compromessi che teniamo sù, costretti, piccoli ma tanti, pesano macigno e un respiro profondo di quelli veri ci riesce soltanto se minata la condizione di equilibrio, in fatale modo non possiamo dire che l’amore ci rende liberi...
In eguale modo quello che è cosi intimamente personale diventerebbe di tutti, comunismo d’affetti, amore di puro interesse, un gnocone di posizione sociale. Non c’è ritorno per chi parla con le muse.
In breve significa amare, niente?