martedì 12 febbraio 2013

UNA MANCATA OCCASIONE






TITOLO: "OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI"
DATA: 8.11.2011
ORA: 18:30 (UFFICIALMENTE E’ INIZIATO TUTTO ALLE 19:15 COMPRENSIBILE RITARDO INTELLETTUALE)
LUOGO: MARTE MEDIATECA EVENTI | CAVA DE' TIRRENI | SALERNO
GENERE: SERRATO DIALOGO PSEUDO INTELLETTUALE, ASTRATTO DALLA REALTA' | 4 ATTI +1|
ATTORI: GIOVANNA D'ARCO - MODERATRICE | IL MEDIO CONOSCITORE - UNISOUND | MISTER X - STORICO DEL CINEMA | L'ARABO - SALVATORE | IL VECCHIO-RINCOGLIONITO |


ATTO I

MADEMOISELLE D’ARCO (occhi attaccati al foglio guai se si staccano):

NEI MOMENTI DI CRISI BISOGNA FARE RIFERIMENTO AGLI INTELLETTUALI DEL PASSATO.
BASTA PARLARE DI PASOLINI COME UN OSCAR WILDE ALL’ITALIANA.
IL VERO FASCISMO E’ IL CONSUMISMO.
BISOGNA DISTINGUERE LA CRITICA DAL SOGNO.

ATTO II

IL MEDIO LETTORE (il suo intervento comincia con il video del resto non sa neanche da dove cominciare - divertente): VIDEO “PASOLINI E IL MEDIUM DI MASSA”

IO VOGLIO INTERROMPERE IL RAPPORTO GERARCHICO TRA IL MEDIUM DI MASSA E IL FRUITORE ATTRAVERSO LE NUOVE TECNOLOGIE.
IL NOSTRO E’ UN ENTE PUBBLICO. HA UN APPROCCIO SPERIMENTALE E UN RAPPORTO ALLA PARI TRA  PROFESSORI E STUDENTI.
LA MIA TESI DI LAUREA TANTI ANNI FA FU SUL PROGETTO DI UNA MEDIATECA CON TANTO DI BUSINESS PLAN.    

ATTO III

MISTER X (almeno lui non legge il foglio-ma forse era meglio se leggeva):

CORTI DI PASOLINI. “LA TERRA VISTA DALLA LUNA” E “COSA SONO LE NUVOLE”  
PASOLINI E TOTO’.
ANEDDOTO INSIGNIFICANTE SU TOTO’ E PASOLINI.
PORNO-TEO-KOLOSSAL. SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA.
PRINCIPIO DI AUTODISTRUZIONE IN PASOLINI.

ATTO IV

IL VECCHIO RINCOGLIONITO (il suo intervento è talmente spiacevole che la sala quasi si svuota, alterna le parole con pause così lunghe che lui stesso si scorda cosa ha detto precedentemente-merita rispetto solo per l’età):   

DANTE – VIRGILIO…(pausa) |  PASOLINI – GRAMSCI…(pausa)
PASOLINI SOSTITUISCE…(pausa) “IL PADRE” GRAMSCI…(pausa) CON SE STESSO…(pausa) PER DIVENTARE LUI STESSO…(pausa) PADRE-FIGLIO.
PASOLINI E’ IL… (pausa) PORTATORE DI…(pausa) VIVERE IL PROPRIO…(pausa) INCONSCIO AL DI FUORI.   
METTE IN SCENA…(pausa) L’INCONSCIO PERCHE’…(pausa) ALTRI LEGGANO…(pausa) IL PROPRIO.


UNA MANCATA OCCASIONE 
IO CE L'HO A MORTE CON ME STESSO E CON TUTTI I RAGAZZI PRESENTI QUELLA SERA. NON UN GRIDO, UNA PAROLA, UNA RISATA. NIENTE, SILENZIO ASSOLUTO. UN ALTRO PIANETA, DOVE LA VITA NON C'E’ ANCORA O E’ FINITA DA MILLENNI. NESSUNO DI NOI HA PRONUNCIATO UNA VOCALE DI RIBELLIONE NEI CONFRONTI DI QUELLO CHE STAVA ACCADENDO DAVANTI A NOI. TROPPO EDUCATI NOI RAGAZZI DI OGGI. AMMAESTRATI.  IO NON MI SALVO. PERO’ NEANCHE SONO RIUSCITO A MANDARE GIU’ TUTTO QUELLO CHE SI E’ DETTO. AVEVO  PENSATO DI SCRIVERE QUESTO PEZZO SPULCIANDO OGNI INTERVENTO CON LA MASSIMA FEROCIA PER METTERE IN RISALTO OGNI DECADENZA E L’ASTRATTISMO INTELLETUALE CHE NASCONDE L’IGNORANZA E IL POCO IMPEGNO, MA MI SONO ACCORTO CHE NON C’ERA BISOGNO. BASTAVANO DELLE FRASI CHIAVE DEGLI ATTORI CHE HANNO DISANIMATO QUEL PALCO PER TUTTA LA SERATA DEL 8 NOVEMBRE IN NOME DI PASOLINI. SO DI NON ESSERE NE PIU’ NE MENO INTELLIGENTE DEI MIEI COETANEI E CHE NONOSTANTE TUTTO LORO E SOLO LORO MERITANO IL MIO SINCERO RISPETTO. IL MIO GRIDO, PRESENTE IN QUELLA SALA, NON C'E’ STATO. ADESSO  DOPO UNA SETTIMANA E’ UN SUSSURRO CHE EVIDENZIA SOLO LE FRASI CRUCIALI. ALMENO IN PARTE, L’UNICO ARRABIATO, L’ARABO, HA DATO DELLE RISPOSTE CHE AVEVANO BISOGNO PERO’ DEI GIOVANI NON PER SOSTEGNO, MA PER ESSERE CONTESTUALIZZATE MEGLIO NELLA NOSTRA REALTA’ DOVE IL CORPO E IL VIOLENTO PASOLINIANO SI NASCONDONO ANCORA CON UN PUDORE OTTOCENTESCO. LA CENSURA E L’INCLUSIONE SONO SORELLE GIA’ DA TEMPO. LA MERCIFICAZIONE FA DA PADRONE ALLA NOSTRA CULTURA DI RIBELLI. LA  MINACCIA CHE INCOMBE SU DI NOI E’ QUELLA DI  UN GIORNO VICINO QUANDO SCORDATI DELLA PRECARIETA’ D’OGGI  CI TRASFORMEREMO IN ATTORI SINISTRI DI QUESTI QUATTRO ATTI.



L’ARABO SALVATORE (l’unico arrabbiato giustamente - se la prende un po’ con tutti e fa bene – peccato che il suo era il penultimo intervento ero curioso di sapere cosa avrebbe detto al vecchio, forse nulla dato che ha preso appunti durante le sue lunghe pause – tutto sommato non poteva salvare l’insalvabile provincialismo anche se dal suo intervento nulla hanno capito gli altri - PER QUESTO IN QUESTA SCHEDA MERITA IL +1 COME ATTO DA PARTE A TUTTI GLI ALTRI NON INTERVENTI):  

IO NON RITENGO PASOLINI UN CORSARO. BISOGNA ANDARE OLTRE, PERCHE’ OGGI LA FAMOSA DICITURA “IO SO” PUO’ ESSERE UN TITOLO DEL “FATTO QUOTIDIANO”. IL GOVERNO CHE VERRA’ DOPO QUESTO SI APPELLERA’ AL ANTICOSUMISMO. OGGI NON C’E’ NULLA DI SCANDALISTICO NELLA TESI DI PASOLINI. IL NEO CAPITALISMO NON ESCLUDE MA INCLUDE E SENTENDOLO DIRE DA PER TUTTO CIO’ MI RENDE MOLTO SOSPETTOSO. IL CAPITALISMO E’ UNA MACCHINA CHE SI NUTRE DEI NOSTRI DESIDERI. OGGI IL DESIDERIO E’ PARTE DEL CAPITALISMO. DIRE AI PRECARI NON BISOGNA GODERE TROPPO E TROPPO IN FRETTA E’ INGIUSTO E ASSURDO. L’USO CHE SI FA DI PASOLINI OGGI E’ PERVERSO. LA POESIA SUGLI SBIRRI VA CITATA MENO E NON A SPROPOSITO PERCHE’ DA GENOVA IN GIU’ QUELLI PICCHIANO UN PO’ TROPPO. IL NEO CAPITALISMO E’ UNA FORMA DI CONTROLLO DEI DESIDERI. LA LISTA DEGLI ESCLUSI DAL GODIMENTO, IMMIGRATI, PRECARI E’ MOLTO LUNGA. OGGI C’E’ IL PERICOLO CHE L’USCITA DAL LIBERALISMO SIA UN RITORNO ALL’ORDINE E CHE PASOLINI VENGA USATO SOTTO QUEST’ASPETTO NON PUO’ ESSERE TOLLERABILE. PASOLINI E’ UN AUTORE VIOLENTO. FA, NON SOLO DELLA SESSUALITA’, MA DEL CORPO E DELLA CORPORIETA’,  UN ARGOMENTO DI DIBATTITO PUBBLICO. FA DI QUESTO UN PUNTO DI PRESA DI TUTTO IL DISCORSO POLITICO. PASOLINI VA OLTRE LA CENSURA STESSA, ATTACCA IL PRINCIPIO DELL’INCLUSIONE E DELLA MERCIFICAZIONE.         

Il peso di uno studente


“Consumava metri il rumore stridulo, mentre scorreva il paesaggio insieme la notte d’argento che vegliava sull’asfalto assuefatto dalla velocità. Le mani al vento. Pregavo Dioniso pagano di gocce ambra, un attimo sollevammo l’anima da terra. “Faust era giovane e bello” mascherato, tu cara d’incoscienza. Accorgermi non potevo di tutte le speranze che trovavo, mentre i sogni si trasformavano in ricordi esauriti come uno sguardo non più innamorato. Lacrimavo, il vento aveva scosso la retina, giusto in tempo s’intravedeva appena la luna. Con i riflessi delle mie lacrime finte uccidevo il suo amato chiaro. Fu cosi che ti rividi mora una sera. In dono alle tue meravigliose labbra un piacere violento, io accaldato dentro la freschezza delle tue onde. Fu cosi che persuasi il mio peso. Fuggo, ma la velocità mi rende orrendo. Adesso sbadiglio la sigaretta nella palude.” 
E’ esuberante la sintesi, un pensiero che vuoto interno d’anima diventi analitico nella sua definizione puramente formale, ed ha successo. Dico il livello di retorica oggi è al massimo quando ricordo quello che ha detto Carlo, ne abbiamo fatto d’ una debolezza una forza, per non persuaderci nella concretezza. La qual per suo valor non s’avvantaggia e dico Michelsteadter per nutrirmi un po’ della giusta umiltà. 
L’io pendolante vaneggio nelle tracce del pedone, le cerco con cura dietro una attenta follia, senza odorare soltanto quella effimera forma. Assume strana genesi aspirare all’istante in termini puramente d’intuito ma non so quale spirito armeggia il mio essere attentato. 
Fanno sorridere a volte quei piccoli compromessi che teniamo sù, costretti, piccoli ma tanti, pesano macigno e un respiro profondo di quelli veri ci riesce soltanto se minata la condizione di equilibrio, in fatale modo non possiamo dire che l’amore ci rende liberi... 
In eguale modo quello che è cosi intimamente personale diventerebbe di tutti, comunismo d’affetti amore di puro interesse, un gnocone di posizione sociale. Non c’è ritorno per chi parla con le muse. 
In breve significa amare, niente? 

(dall'introduzione alla tesi su DINO CAMPANA)

Chi se ne frega di Calvino.


                                                                                         “Tu muovi bianca come un foglio, fresca di luce
                                                                      Animi la gravità e scivoli leggera, elastica indovini la maniera”

Immaginiamo un uomo che passeggia in un caldo pomeriggio parigino. Si ferma e guarda ammaliato una vetrina, i gusti esposti con cura, le stravaganze dei colori vaporosi, i pori della sua lingua si allargano, le ghiandole della saliva si eccitano e con un orgasmo in bocca entra nella gelateria. Ha voglia di un gelato alla vaniglia, ma con l’acquolina in bocca pronuncia una effe, esplosiva, che viene interpretato come “fragola” dalla signorina con i capelli neri dietro al bancone. Appena i loro sguardi si incrociano lei si sente calda, poi con il suo avvicinarsi al bancone ha percepito vigorosamente l’alone ormonale che emanano gli sessi opposti quando hanno una regolare attività sessuale. Lui si sente osservato e lei mentre sistema il gelato si fa cadere una rossa goccia sul senno prorompente. Si lecca all’altezza quasi del capezzolo. Gli passa il gelato e le loro mani si sfiorano. A lui ormai il sudore cala e gli lubrifica la fronte, cammina fino alla cassa per pagare cercando di non farsi notare. Mette la mano nella tasca ma non riesce a prendere gli spiccioli perché deve prima aggiustarselo. Nel tentativo di spostarlo dall’altra parte si strappa i peli e non può non mostrare alla cassiera dai capelli rossi la smorfia prodotta da quel sradicamento. Rinuncia agli spiccioli e paga con le banconote. Esce fuori e lecca, si siede e lecca, in un parco qualsiasi, una panchina qualsiasi, tutto contornato dalla decadence di una Parigi qualsiasi, lecca ancora. Mentre gusta il sapore goloso, pensa alla sua vita. Riflette in un momento di piacere. Gli scappa da ridere pensando al rischio di essere scoperto dalla moglie mentre stava per compiere un dolce peccato. Ridendo rischia di affogarsi con il gelato. Tossisce, non respira, il suo viso si arrossisce e il corpo risponde contorcendosi. Con un ultimo sforzo si da un pugno semi aperto in petto e si riesce a liberare di un pezzetto di cono che gli era andato di traverso. Si riprende, trema ancora, che brutta paura. Si compone sulla panchina asciugando le lacrime prodotte dallo sforzo. Si tranquillizza e riflette in un momento di paura, di improvvisa morte. Decide di scrivere un nuovo libro. Un nuovo romanzo di metodo. Da anni davanti alla machina da scrivere si sente spaesato. E’ emozionato come se fosse la prima volta. Il debutto in letteratura. La nascita di una nuova pena. Vergine gira nervosamente la rotella per sistemare la pagina in modo da non sprecarla, controlla che tra le lettere non ci sia qualcuna attaccata all’altra, il nastro con il colore se troppo asciutto, si sistema la poltrona e si accorge che il cuscino sotto il suo sedere è a meta fuori, si alza lo sistema e sta per risedersi, ma si accorge che deve cambiarsi la giacca perché sporca di gelato. Tenta di togliere la macchia, ancora non assorbita dal tessuto color celeste con le mani, per non farsi sgridare quando la moglie vedrà la giacca. Si sporca le mani e peggiora la macchia. Torna ma il pullover che ha preso velocemente in armadio è troppo caldo, per di più si è scordato di lavarsi le mani. Ritorna nella stanza da letto apre l’armadio si mette una vestaglia e si avvia nervosamente in bagno per sciacquare le mani. Si guarda nello specchio dopo aver bagnato la fronte e si accorge che si è messo la vestaglia di sua moglie, con le mani tra i capelli e vari coloriti ringraziamenti per i santi si cambia. Più nervoso che mai si avvicina come un felino in atteggiamento di caccia alla macchina da scrivere come se questo aggeggio metallico fosse la sua fonte interminabile di disgrazie e di gloria. Guarda la pagina bianca focalizzando la proiezione immaginaria sulle lettere che verranno. Vuole captare la vibrazione giusta contrariato dagli avvenimenti di prima. Cerca di accelerare i pensieri in modo che la razionalità sia più bassa e lasci il dovuto spazio all’immaginazione. Pian piano sta per decollare nel suo viaggio e si porterà tutte le prospettive dietro, perché lui sa, lo ripete spesso a sé stesso, non è un puro per scelta e non può essere biasimato. Si addormenta, i pensieri nella viltà. La sua postura senza sogni gli fa da alibi perché sembra un sonno profondo dopo tanti anni di lavoro. Il riposo di una vita non glielo concede il vento. La finestra semi aperta sbatte atrocemente, facendo cadere a picco un pezzo di vetro che si frantuma sulla scrivania e che quasi per miracolo non cade tra i polsi arresi. Il risveglio, gustato intensamente come un graffio nell’anima, lo travolge e gli altera i sensi, ancora assonnato gira la testa tremante ed è cosi lontano ed ha una prospettiva sola, limitata di fronte alla porta della stanza che non riesce ad aprire, perché sconvolto. Rinuncia torna a sedersi. Frantumi di vetro gli scompongono tra le pareti della stanza la luce in unità, ognuna ferma immobile con la sua escandescenza li suggerisce un componente, non un personaggio ma una sintesi di condizione dove far muovere le loro figure, figli statici della fantasia. Naturalmente prende un pezzo di vetro, il più grande forse, comincia a muoverlo tra le altre raggianti, diverse per dimensioni, proiezioni. Questa sarà la condizione principale del libro la condizione dinamica, il viaggio. Lui è umano? L’io che si esprime e lo scrittore che sta dietro l’io, si sente in pace solo nella condizione ibrida, a metà viaggio. Un viaggio ipotetico, un viaggio nella struttura, nello stile, nel calcolo, nelle varie combinazioni di condizioni temporali e spaziali senza sostenere la trama, senza tragedia, senza scegliere nemici, passivo di posizioni, l’io evita ché  si descriva e rivela l’archivio di compromessi reali. Non avrebbe senso rimanere ad aspettare che il tempo passato ritorni. Decisamente l’assurdità è più comune di quanto appare. Semplificare per capire meglio ma semplificando si perde l’intensità. Mentre cammina su sabbia vulcanica, smaltisce aria speciale fatta di sogni lucidi che incriminavano di bassa temperatura gli atomi sensibili ala libertà. Noncuranza di fame, di bisogno, che urla nel vento fino a trasformare il mare in mercurio, cibo! Forse  dietro la terza luna assopito zoppicherai lo sguardo dentro la superficie della cabina; estendi le braccia meccaniche per aiutare un’idea rimasta incastrata dentro la cintura d’asteroidi. Il titanio scricchiola orgogliosamente trascinando svelto tra scogliera grigia e ponte di bordo l’immaterialità dell’ideale. L’euforia carica di velocità il sangue e la circolazione diventa sostenuta, ma non basta questo è solo il segnale che la mano ha afferrato energicamente il filo, è un idea gravida di tante piccole idee, comodo, scrivano, già situato nel mondo, operazione: completata.  
Il rigore meccanico ha il sapore di una corsa dove infiniti pistoni sudano una materia grassa dal gusto sapiente. Il colore non esiste. L’ombra non è diversità. Di fronte a me, lei con occhi di luce. Senza occhiali sono costretto per non addormentarmi a guardare il sole nero tra i suoi capelli. Provo una senzazione piacevole quando sai di avere un attenzione mascherata. La musica mi accarezza, sono contento, superficiale, di breve memoria, uno stato di grazia e per niente d’attesa. Mi emoziona il soprasso di un camion. L’autista corre, fischia la pressione che bilancia ad aria compresa i parametri degli ammortizzatori , la cosi detta spugna d’aria fa dondolare la motrice inebriata. Un Ulisse qualunque, che corre dalla sua Penelope o da una studentessa fuori sede. Il sedile è comodo, mi offre una visuale rialzata perché sopra le doppie ruote posteriori, sento sprigionare la trazione direttamente dal differenziale ma le marce automatiche dei moderni bus addolciscono la sfida ruotante alla gravità. Pian piano la spinta diventa leggera, nelle marce superiori il motore riposa producendo un rumore che gratta alla gola. Tossisco, nel muovere la mano per metterla avanti la bocca sfioro la borsa della ragazza seduta di fronte. Mi suona il cellulare e con l’altra mano cerco di prenderlo, la mia tosse non si placca, ho le mani occupate sono prigioniero delle necessità, non posso tossire senza la mano vicino e devo rispondere, può essere importante. Lei non si è accorta di me, non mi ha rivolto uno sguardo da quando è salita, però sa che sono di fronte come un qualunque passeggero, sta lì assorta tra le pagine di un libro. Cercando di estrarre l’apparecchio dalla tasca tocco il suo ginocchio, lei si distrae, mi guarda ancor prima di alzare del tutto la testa. Sto fermo in bilico tra le estremità del sedile, ho quasi i crampi dalla sensazione di essere scoperto anche se ben nascosto. Ormai lei mi guarda, forse aveva l’intenzione di rimproverarmi all’inizio ma adesso ride, la sua risata è di quelle acute, sinistra nella sensazione che ti avvolge soprattutto perchè ride di te non con te. Tutti gli altri studenti si girano mi guardano. Ghiacciato, immobile, pietrificato, cementato. Tutto diventa foderato di pelle nera, vetri graffiati da evidenti segni di unghie umane, la plastica nera lascia spazio al legno, il soffitto del veicolo sembra imitare le navate di una chiesa sconsacrata, l’autista ha un cilindro nero in testa e ride mentre maneggia delle leve. Il loro riso senza motivo, va avanti per un po’, all’improvviso lei zittisce di colpo la macabra allegria che propaga in cabina. Seria si alza e mi scarica una scossa vocale prolungata, semplicemente per la colpa di una piccola superficialità che ho avuto nel disturbarla mentre leggeva, Kafka. Non mi sono difeso. Ero estraniato perché mi sono reso conto che tutti nel bus erano tornati a leggere il Processo. Mi sono ripreso, la tosse si è calmata, il telefono squilla ancora. Rispondo. Mentre parlo al telefono mi sento straniero perché nella galleria il veicolo si trasforma in un enorme cabina telefonica in movimento, dalle porte alle luci, corazzato di nostalgia, le voci dall’altra parte commosse perché risucchiate dalla distanza, l’assenza nel vivere e condividere con loro il quotidiano, che a volte anche se sono un rifugio nella debolezza, e l’io che non scrive non si sente per niente una vittima, mi fanno piangere con certe lacrime bianche, color manicomio e profumano d’ospedale. Con la vista dell’università, accarezzata dai primi raggi del mattino primaverile, ecco che torna carica una proiezione mentale che si era scolpita nella mia materia grigia già dalle prime volte che avevo visto il campus. Un’immagine che viaggia insieme a me, con il posto dove sono seduto, con la ragazza con occhi di luce, con gli 10 maschi e le 12 ragazze che abitano questo viaggio, insieme ala plastica, al metano, al diesel, all’autista a cui è vietato parlare, ai tubi, alle ruote, alle superfici di vetro che per risparmiare il consorzio gli sostituisce con quelli di produzione cinese, al mio biglietto timbrato a mano, con l’obliteratrice, con la richiesta di fermata che per quanto i freni insistono a rispettare, non si può. Non volendo un ragazzo ha premuto il bottone sporgente rosso, come quelli delle centrali atomiche, muovendo il gomito sinistro fuori dal sarcofago della postura, mentre stava girando, ansioso di leggerla, ribellandosi agli altri lettori mobili del Processo, un altra pagina di Brecht. La strada si spoglia del guardrail, si entra nel viale largo, il bus sfila come una platea mobile tra palchi bidimensionali, i cartelloni pubblicitari si fanno lucidi, fischiano al vento perché li stenda con un morbido fruscio. Il più grande di loro ha come espressione di potere una cornice di fari.
Campus Unisa, orgia di conoscenze….    

Perché i giovani pensano. (versione integrale dell'intervento su Carlo Michelstaedter)


Mi piace quella misura di passi con cui Michelstaedter si muove. Si muove dal basso, consapevole. A 23 anni riesce ad avere la forza di comprimere il tempo. E’ un lavoratore del pensiero Carlo. Due sono i concetti fondamentali, la persuasione ovvero il  tentativo sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere in possesso di se stessi e la retorica, l’apparato di parole, di gesti, d’istituzioni, con cui viene occultata l’impossibilità di giungere alla persuasione.  Bisogna subito sradicare una deduzione errata, Carlo non pensava da vecchio, non aveva raggiunto un pensiero alto perché prematuramente maturo.  Anzi il suo pensiero è giovane  e rimane tale, nonostante vige la più comune delle opinioni che poi nasconde calunnia da mediocre intellettuale: “Carlo vecchio filosofo morto molto giovane”.  Questo vile tentativo è il nostro modo di operare attraverso la retorica quotidiana piena di compromessi per adempire le proprie necessità. In ogni caso anche quando scegliamo di morire, non siamo capaci di controllare la morte. Nel frattempo però ci illudiamo di controllare la vita. Ecco perché la vita ci è tanto cara perché pensiamo erroneamente di controllarla.  Ci sono cose però che solo in vita possono capitare e sono uniche e meravigliose, per esempio fare l’amore, avere dei figli. Questa è la tragedia. Carlo è morto a ventitre anni.  Carlo però, tragico giovane eterno, scrive una tesi in filosofia. La persuasione e la retorica. Avrei voluto vedere la faccia dei professori quando hanno letto una tesi del genere. Forse non c’è da stupirsi se l’hanno ignorata. Superava molto la loro sensibilità, quasi una vibrazione di così alta frequenza che l’umanità aveva bisogno di un nuovo artefatto per decifrarla. Quel colpo di rivoltella, nel lontano 1910, riecheggia la tragedia in un urlo di rabbia. Carlo non è un genio, ma un erudito a pieno titolo, un lavoratore-filosofo. Perciò sappiate, giovani di tutti i tempi tra voi c’è Michelstaedter, per qualsiasi ribellione, quest’opera è un manuale perfetto. Potete mettere in crisi tutti i vostri professori se saprete ben decifrare questa vibrazione, e nell’oscurità creare da sé la vita.    
Fare di se stesso fiamma. Quasi un richiamo a costatare di persona. A verificare con i propri sensi con il proprio corpo. Per fare cosa? Per farsi un’idea. Di cosa? Del mondo. Pensare è? Oltre ad essere. Non importa l’essere stato ma il divenire. Una cosa naturale nonché utile. Per coltivare il pensiero bisogna conoscere, sapere. Per vivere coerentemente con ciò che veramente si pensa, bisogna diffidare di qualsiasi professore, contro ogni scuola di pensiero . 
“Ora vado da solo, discepoli miei! Anche voi andatevene da soli! Così io voglio.
In verità, io vi consiglio: andate via da me e guardatevi da Zarathustra! Ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato.”.   
Questa Virtù che dona manca ancora di più nel nostro reale, nei nostri corridoi universitari. Grigia realtà, professori daltonici, nel colore studentesco.  
Allora?
“Un giovane educato in collegio religioso si volge per reazione a tutto quanto sa di ribelle alle leggi umane e matura il cervello nelle speculazioni della psiche dell’uomo e del mistero della natura. Egli troppo vede e nel suo animo amareggiato la fonte del sentimento inaridisce. Egli lo sente e ne prova dolore, vuole perciò lanciarsi nella vita per eccitare con le sensazioni più forti  le fibre paralizzate dell’animo suo. E lo fa.”.       
Chi si ferma alle parole è perso, nella quotidianità. Ma è forse utopico fare guerra alle parole con le parole? No. E’ divinamente divertente, è un gioco. Carlo gioca.

“Vita, morte, /la vita nella morte, /morte, vita /la morte nella vita”

Non c’è nulla di triste, di disperato nel gioco. Carlo gioca parlando con un amico in greco, si diverte. Noi abbiamo dimenticato, pensiamo che il gioco sia solo una dimensione ludica e superficiale. Invece il gioco insegna la vita o la morte. La società degli uomini bambini non gioca. È un paradosso. Infatti, il pensiero di Michelstadter  rimane attuale, noi giochiamo solo per premio, in modo retorico si chiama educazione.
Che succederebbe se i bambini imparassero giocando? Carlo consapevole di giocare, sa di non sapere. Che ci fa Socrate all’inizio del ‘900? Allora torna tutto? No. Siamo noi che veniamo e andiamo, una sola volta. Carlo lo fa da ribelle, vivo, singolo e lavoratore.

“Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni.”.
 Questa definizione di Junger sintetizza meglio uno dei tratti più efficaci di tutte le opere, di Carlo Michelstaedter. Dalla Persuasione e la retorica e alle Appendici critiche, al Dialogo della salute e La melodia del giovane divino, sino alla raccolta di poesie. Il tema centrale è il Ribelle e il diverso. La libertà di dire no.

 “Al mio Emilio
in memoria delle nostre sere
e a quanti giovani
ancora
non abbiano messo
il loro Dio
nella loro carriera”  

La parola "ancora" in questa dedica, che apre il Dialogo della salute e altri dialoghi, è un sorriso, è una volontà, è ogni volta un’alba nuova, una rinascita. 
La critica filosofica che Michelstaedter innalza, l’accusa nei confronti della retorica, che vieta la possibilità  di persuaderci nella concretezza, di prendere visione e avere coscienza dell’impossibilità di controllare tutto, e soprattutto la vita e la morte, è magnificamente resa in un linguaggio scarno, poetico, perché Carlo è un giovane innamorato, la sua volontà di potenza ha sì una finalità filosofica ma è sempre supportata interiormente dalla poesia. Così le cose non sono due, filosofia e poesia ma una sola, in quanto intrecciandosi, continuamente, esistono soltanto in rapporto e non sono scindibili tra di loro. Un po’ come succede in tutti noi con la razionalità e l’emotività.
La ragione, fredda e spietata intuisce che siamo come il peso che pende e affinché pende, dipende dal gancio, e per quanto lo vogliamo soddisfare il nostro “Io” con le necessità quotidiane, con la miope illusione della retorica, sganciato il peso per possedere la vita stessa esisterà sempre un punto più basso che quello raggiunto da dove nascerà più forte il desiderio di raggiungerlo. Così infinitamente ogni volta soddisfatto della sua quotidianità l’uomo usa la retorica per occultare l’impossibilità di possedere se stesso. L’analisi filosofica che fa alla sua società è affilatissima, e non si ferma qui, prova di una freschezza giovanile il pensiero di Michelsatedter non è affatto  immediato, è un pensiero inattuale e se lo è ancora oggi, vuol dire ci ha visto a lungo nel tempo, a ventitre anni.
La poesia di Michelstaedter, è delicata. Il canto è quello delle crisalidi. La fragilità che sussurra uno stato precario e la vittoria che esalta il più debole, quello che sa di non sapere, il più umile, il pedone che misura coi suoi passi il terreno.
Bisogna però uscire dall’area decadente. Non è catalogabile il flusso poetico di Carlo, come del resto il suo inattuale  pensiero filosofico. Le poesie composte tra il 1905 – 1910, risentono quasi nulla del clima letterario di quegli anni. La vocazione poetica non è solo quella di spingersi oltre la vita, oltre il suo confine, che non è detto che il limite sia la morte, ma spingersi oltre e basta, al di là, comprimere il tempo non per vedere il futuro o cambiarlo. Carlo lavora nel presente, ed è inattuale in versi e pensieri, vita e morte, “l’universo e ‘l nulla”. Vivere, il presente in ogni futuro.         

“E la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita
Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte”

A volte si ha l’impressione, leggendo, che le parole si fondono tra di loro anche in termini d’armonia, il suono è soprattutto umano, per quanto criticato l’uomo rimane il centro. L’asse è il corpo umano. il punto d’incontro tra la vita e la morte non è la malattia, è il corpo. Piccola svista di Campailla Sergio, un professore . Il ritmo è dettato da una sorta di rima del pensiero che ascolti mentre leggi a voce bassa, piano e magari ripeti perché ti sembra un gioco di parole (infatti lo è), non cogli subito e vai avanti finché, quelle parole non ti tuonano in testa, come le favole che fanno dolcemente fantasticare i bambini.
Ma qual è il valore in una favola? È la morale.
Ora immaginate,  la terra nell’universo, il passaggio di una cometa, e voi che assistete ad un loro dialogo:

“TERRA: Eccola qui ancora, la vagabonda!
COMETA: UFFFF…
TERRA: Prudenza per dio! Guarda un po’ dove vai!
COMETA: Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si vede!
TERRA: Già, ma intanto… No perdio! Fa attenzione!
COMETA: Meglio non far attenzione che attender sempre ciò che non vien mai. 
TERRA: Accidenti! Ma proprio addosso a me deve venire! Ora mi spazza! Si può dar di peggio?!
COMETA: Sì, i pianeti!
TERRA: Ma guarda che lì vai a batter in Marte – questo si chiama esser ben distratti!
COMETA: Meglio distratti, che attratti, e contratti e rattratti…
TERRA: Tu intanto sei ogni  volta più stravagante, e più nebulosa. Di un po’, quando la finirai di fare la vagabonda?!
COMETA: Quando tu la finirai di fare di far “la coda”.
TERRA: Sarebbe ora che tu mettessi giudizio, - e lo dico pel tuo bene.
COMETA: Già, o per dormir i tuoi sonni tranquilli, -  vecchia ipocrita. Tu e Marte e Venere…e quanti vi siete regolate le vostre orbite col centimetro per aver tutta la via comoda e sicura e rotolarvi in santa pace e far la corte…
TERRA: Al sole, sicuro…
COMETA: Già, il sole. – Voi fate tutto in nome del sole, anche la notte!”                

C’è chi dissolve le proprie energie in una critica strutturalista. Così si passa da nome a nome, da citazione a citazione, da ricerca a semplice compilazione, dal contenuto alla forma, dalla finzione alla retorica, dalla menzogna all’ipocrisia che altro non è, che menzogna della menzogna. Quando il contenuto non viene per primo in ordine d’importanza e lo strumento della critica diventa il fine stesso, significa che il nostro tempo è maledettamente perverso. Allora, non rimane che scegliere di esser schiavi o ribelli.  Michelstaedter, non è drammatico. È tragico. È inattuale o meglio è attuale nel futuro.

“Quando al dolce e al giuoco si sostituisca il guadagno, “la possibilità di vivere” – “la carriera”, “la via fatta”, “le professioni” – lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare bere e dormire e prolificare. Così ne potremmo fare un degno braccio irresponsabile della società:
UN GIUDICE, che giudichi impassibile, tirando la proiezione dalla figura che l’istruttoria gli presenti sulle coordinate del suo codice, senza chiedersi se questo sia giusto o meno. UN MAESTRO, che tenga 4 ore al giorno, 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studiare quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non si adattino alla disciplina, - e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile, che ne porterà le conseguenze  per tutta la vita, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto.
UN BOIA, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida. Perché egli non veda mai altro in tutto ciò che quell’ufficio indifferente su cui non si discute ma che gli da i mezzi per vivere, e sia strumento inconsapevole.
Così se ne facciamo un uomo di SCIENZA, avranno resa possibile l’oggettività. Infatti egli sarà abituato dalle fasce in su a sapere che altro è lo studio, altro è il giuoco. Così egli si potrà mettere a sciogliere problemi filosofici muovendo i concetti che le norme scientifiche insegnano, senza mai curarsi del loro valore.”.        

In fondo viviamo in modo inattuale tutti,  non possediamo la vita, ma saperlo è difficile, bisogna apprenderlo. Carlo vuol vivere un gradino oltre la possibilità di vivere se stesso.   
Carlo è la forma incarnata del selvaggio, non per le sue idee, ma per natura.
L’io pendolante vaneggio nelle tracce del pedone, le cerco con cura dietro una attenta follia, senza odorare soltanto quella effimera forma. Assume strana genesi aspirare all’istante in termini puramente d’intuito ma non so quale spirito armeggia il mio essere attentato.
Fanno sorridere a volte quei piccoli compromessi che teniamo sù, costretti, piccoli ma tanti, pesano macigno e un respiro profondo di quelli veri ci riesce soltanto se minata la condizione di equilibrio, in fatale modo non possiamo dire che l’amore ci rende liberi...
In eguale modo quello che è cosi intimamente personale diventerebbe di tutti, comunismo d’affetti, amore di puro interesse, un gnocone di posizione sociale. Non  c’è ritorno per chi parla con le muse.
In breve significa amare, niente?

lunedì 11 febbraio 2013

CILENTO VILLAGE OUTLET - IL MIRACOLO

EBOLI – San Nicola Varco, il Polo Agroalimentare, la discarica, il ghetto e nuovamente la discarica in attesa che si compia il miracolo del Cilento Village Outlet. L’ultima volta a darci il benvenuto furono un ammasso di bidoni blu con la scritta “Non disperdere nell’ambiente, sostanze altamente inquinanti”. Una volta dentro, superato il cancello, tutto era un collage di edifici tristi e abbandonati, vecchie roulotte, tende di plastica, box destinati alla vendita della frutta trasformati in stanze da enormi teloni e poi tutta l’oggettistica casalinga, radio, cd, coperte, e scarpe, una quantità enorme di pantofole e scarpe. I cumuli di oggetti e ferraglia stavano ammassati qua e la quasi a voler sfidare “La venere degli stracci” di Pistoletto. Chi aveva  abbandonato quegli uomini e quelle donne a condizioni così pietose? chi li aveva costretti ad andar via con la forza e la fretta di far passare tutto in silenzio? chi aveva inventato questo posto cruento ma così vicino alla civiltà.  Eppure in questo caos di oggetti e rovine si notavano ancora le tracce di quelle ottocento persone che avevano vissuto per dieci anni in quegli ambienti, con l’anima tra i denti per il duro lavoro nei campi e il “campo” dormitorio, dei prigionieri o dei moderni schiavi. In quella giornata fredda di dicembre del 2011 con il sindacalista Anselmo Botte e il giornalista Giuseppe Leone abbiamo avuto una sensazione di rabbia e di terrore, all’unisono: degrado programmato. Questa volta ci sono tornato da solo, è pomeriggio e fa meno freddo, la stradale 18 come al solito è molto trafficata. La sconosciuta traversa a 10 km da Eboli, che sconosciuta non lo è più. Il benvenuto stavolta è peggio di quello dell’anno scorso. Davanti al cancello ormai arrugginito si trovano due cumuli di gomme semi bruciate, che al centro formano pozzanghere nere. L’abbandono si sente nell’aria: l’erba alta non riesce a nascondere nel proprio seno le pile di vecchie carcasse di ogni genere, dall’elettrodomestico marcio di ruggine allo scheletro di un vecchio furgone ribaltato e gomme, gomme di ogni dimensione come compagne inseparabili; ma ancora più inquietante è il magazzino del vecchio Polo Agroalimentare, pieno di marciume,  strati di materassi che salgono verso lo strato più recente delle gomme bruciate come una geologia della spazzatura. Questa è una storia sbagliata, dal principio. Negli anni 80 furono spese decine di miliari di vecchie lire per la costruzione di un Polo Agroalimentare per il sviluppo della zona che ha un carattere agricolo non indifferente. Sull’onda del fiume di soldi sprecati in maniera misteriosa per lo sviluppo del meridione e proprio sul più bello quando mancava poco per mettere in funzione il nuovo complesso furono rubate tutte le attrezzature. Di conseguenza quello spazio così desolato era destinato al non senso e al degrado.  Verso la fine degli anni novanta i braccianti stranieri che lavoravano come manodopera nei campi attorno trova proprio lì un rifugio, forse precario ma tutti si arrangiano come possono negli ambienti umidi e freddi di quello che diventerà il ghetto di San Nicola Varco, tutto intorno è indifferenza. Ottocento persone per venire in Italia hanno avuto il nulla osta dal Centro per l’impiego pagando migliaia di euro ad un mediatore, hanno avuto un visto rilasciato dal Consolato Italiano presso i paesi d’appartenenza; una volta arrivati però l’indirizzo dell’azienda che ha stipulato il contrato non esiste, il telefono squilla a vuoto, così lo straniero dopo otto giorni è clandestino e può essere arrestato perché in fragranza di reato: perciò il ghetto è una questione istituzionale. Nel frattempo la Regione Campania spende 300 mila euro solo per rifare il progetto della ri-messa in funzione del Polo Agroalimentare.  L’undici novembre del 2009 dopo una serie di incidenti, e incendi che scoppiavano all’improvviso durante le buie ore della notte, quelle poche ore di riposo, un numero consistente di forze di polizia, finanza e carabinieri, all’alba sgomberano i “clandestini” di San Nicola Varco. Il Sindaco di Eboli Martino Melchionda grida alla bonifica, mentre la fila dei disperati cammina lenta fino alle camionette, nelle mani quel poco da portarsi dietro, infilato in fretta in uno zaino o in una busta di plastica. Dopo aver vissuto in Italia per quasi un decennio, truffati da tutti, stranieri o italiani che fossero, si sono adattati a sopravvivere lavorando in condizioni estreme, vivendo forse solo per non morire, sgomberati per i dieci anni di sacrifici fatti, poi premiati con mille duecento euro e infine rimpatriati.  Nella strada di ritorno una torre alta come un palazzo di quattro piani innalza al cielo una scritta fucsia dal gusto barocco “Cilento Outlet Village”. Attorno il cantiere è in attività con i lavoratori che si danno un gran d’affare, ma io immagino già le lunghe file di consumatori, gli amanti dello shopping e del tempo ricreativo nel Cilento Village. Durante la presentazione pomposa del 2009 all’Hotel Bulgari di Milano le cifre sono da capogiro: un’area estesa per migliaia di metri quadri e più di 500 posti di lavoro nuovi di zecca, 60 milioni le entrate previste in un anno, 80 milioni la somma da investire. Da notare l’anno coincide con lo sgombero di San Nicola Varco.  Quale mentalità economico-politica può portare un investimento a fianco ad una discarica? Perché per una tale operazione commerciale non si cerca di recuperare un’area degradata che si trova a fianco al cantiere ma ne cementificano una molto più grande? Il dubbio parte dalla dubbia gara di assegnazione di cui non si possiede alcun dato che ne chiarisca i criteri stessi per l’attribuzione e la variazione del piano urbanistico. Naturalmente quando si scopre che a realizzare il Cilento Village sono la “Promos” del bresciano Carlo Maffioli coinvolto per Tangentopoli (arrestato nel 1995 in merito al caso della cupola di Nerviano in provincia di Milano). Ma soprattutto l’immobiliare “Irgenre” del napoletano Paolo Negri. “Un nome noto quello dei fratelli Negri, legati a doppio filo attraverso un fitto castello di imprese e scambi di incarichi amministrativi a Sebastiano Sicignano, commercialista ampiamente citato dalle relazioni dell’antimafia nella proposta di soggiorno obbligato e sequestro dei beni di Domenico Barbato, che la stessa commissione definisce organicamente legato al (ex) clan Alfieri- Cesarano” (dal blogger Nicola Angrisani, 2009). Non solo l’amministratore unico della N.A.C costruzioni s.r.l. di Milano Sebastiano Sicignano  è colluso con la camorra vecchia e nuova per le vicende di Ikea ad Afragola e della grande struttura commerciale  Città Mercato a Pompei, ma è “ inserito in una fitta rete di società composta da ben ventiquattro ditte di cui è dubbia la titolarità e risulta collegato attraverso le società GEN.IM, SOGEST, Adroma Costruzioni, Adroma Immobiliare, Adroma Impianti s.p.a., Promhotel s.r.l. e C.E.G. s.r.l., ai fratelli Negri Bruno, Corrado, Paolo e ai menzionati Barbato Domenico e Imparato Paola. Le strette cointeressenze economiche, affaristiche e societarie tra il Sicignano Sebastiano della N.A.C. costruzioni con il Barbato Domenico e con i fratelli Negri è quindi oltremodo evidente (Atto n. 4-06272 Pubblicato il 3 marzo 2004 Seduta n. 553 Senato della Repubblica). Inoltre i fratelli Negri sono stati già incriminati per l’affare della Città Mercato a Pompei. Forse sembrerà strano ma sono stati proprio gli stranieri sgomberati da San Nicola Varco gli unici che si sono opposti a tale progetto, perché gli incendi non sono più un mistero e oggi sappiamo che il Sindaco Melchionda gridò in nome della bonifica dell’area perché aveva interessi come proprietario (seppur come parente di un proprietario) sull’appezzamento di  terreno dove oggi si costruisce l’outlet. Le istituzioni hanno sgomberato 800 braccianti stranieri; la cura si chiama Cilento Outlet Village, la spazzatura è ancora lì a due passi: a quando la prossima bonifica?  Dopo tutto questa è una storia sbagliata.  Sir Wiliam MacPherson sintetizza bene il concetto: Il razzismo istituzionale è stato definito come quel complesso di leggi, costumi e pratiche vigenti che sistematicamente riflettono e producono le disuguaglianze nella società. Se conseguenze razziste sono imputabili a leggi, costumi e pratiche istituzionali, l’istituzione è razzista sia se gli individui che mantengono queste pratiche hanno intenzioni razziste, sia se non le hanno.