martedì 12 febbraio 2013

Chi se ne frega di Calvino.


                                                                                         “Tu muovi bianca come un foglio, fresca di luce
                                                                      Animi la gravità e scivoli leggera, elastica indovini la maniera”

Immaginiamo un uomo che passeggia in un caldo pomeriggio parigino. Si ferma e guarda ammaliato una vetrina, i gusti esposti con cura, le stravaganze dei colori vaporosi, i pori della sua lingua si allargano, le ghiandole della saliva si eccitano e con un orgasmo in bocca entra nella gelateria. Ha voglia di un gelato alla vaniglia, ma con l’acquolina in bocca pronuncia una effe, esplosiva, che viene interpretato come “fragola” dalla signorina con i capelli neri dietro al bancone. Appena i loro sguardi si incrociano lei si sente calda, poi con il suo avvicinarsi al bancone ha percepito vigorosamente l’alone ormonale che emanano gli sessi opposti quando hanno una regolare attività sessuale. Lui si sente osservato e lei mentre sistema il gelato si fa cadere una rossa goccia sul senno prorompente. Si lecca all’altezza quasi del capezzolo. Gli passa il gelato e le loro mani si sfiorano. A lui ormai il sudore cala e gli lubrifica la fronte, cammina fino alla cassa per pagare cercando di non farsi notare. Mette la mano nella tasca ma non riesce a prendere gli spiccioli perché deve prima aggiustarselo. Nel tentativo di spostarlo dall’altra parte si strappa i peli e non può non mostrare alla cassiera dai capelli rossi la smorfia prodotta da quel sradicamento. Rinuncia agli spiccioli e paga con le banconote. Esce fuori e lecca, si siede e lecca, in un parco qualsiasi, una panchina qualsiasi, tutto contornato dalla decadence di una Parigi qualsiasi, lecca ancora. Mentre gusta il sapore goloso, pensa alla sua vita. Riflette in un momento di piacere. Gli scappa da ridere pensando al rischio di essere scoperto dalla moglie mentre stava per compiere un dolce peccato. Ridendo rischia di affogarsi con il gelato. Tossisce, non respira, il suo viso si arrossisce e il corpo risponde contorcendosi. Con un ultimo sforzo si da un pugno semi aperto in petto e si riesce a liberare di un pezzetto di cono che gli era andato di traverso. Si riprende, trema ancora, che brutta paura. Si compone sulla panchina asciugando le lacrime prodotte dallo sforzo. Si tranquillizza e riflette in un momento di paura, di improvvisa morte. Decide di scrivere un nuovo libro. Un nuovo romanzo di metodo. Da anni davanti alla machina da scrivere si sente spaesato. E’ emozionato come se fosse la prima volta. Il debutto in letteratura. La nascita di una nuova pena. Vergine gira nervosamente la rotella per sistemare la pagina in modo da non sprecarla, controlla che tra le lettere non ci sia qualcuna attaccata all’altra, il nastro con il colore se troppo asciutto, si sistema la poltrona e si accorge che il cuscino sotto il suo sedere è a meta fuori, si alza lo sistema e sta per risedersi, ma si accorge che deve cambiarsi la giacca perché sporca di gelato. Tenta di togliere la macchia, ancora non assorbita dal tessuto color celeste con le mani, per non farsi sgridare quando la moglie vedrà la giacca. Si sporca le mani e peggiora la macchia. Torna ma il pullover che ha preso velocemente in armadio è troppo caldo, per di più si è scordato di lavarsi le mani. Ritorna nella stanza da letto apre l’armadio si mette una vestaglia e si avvia nervosamente in bagno per sciacquare le mani. Si guarda nello specchio dopo aver bagnato la fronte e si accorge che si è messo la vestaglia di sua moglie, con le mani tra i capelli e vari coloriti ringraziamenti per i santi si cambia. Più nervoso che mai si avvicina come un felino in atteggiamento di caccia alla macchina da scrivere come se questo aggeggio metallico fosse la sua fonte interminabile di disgrazie e di gloria. Guarda la pagina bianca focalizzando la proiezione immaginaria sulle lettere che verranno. Vuole captare la vibrazione giusta contrariato dagli avvenimenti di prima. Cerca di accelerare i pensieri in modo che la razionalità sia più bassa e lasci il dovuto spazio all’immaginazione. Pian piano sta per decollare nel suo viaggio e si porterà tutte le prospettive dietro, perché lui sa, lo ripete spesso a sé stesso, non è un puro per scelta e non può essere biasimato. Si addormenta, i pensieri nella viltà. La sua postura senza sogni gli fa da alibi perché sembra un sonno profondo dopo tanti anni di lavoro. Il riposo di una vita non glielo concede il vento. La finestra semi aperta sbatte atrocemente, facendo cadere a picco un pezzo di vetro che si frantuma sulla scrivania e che quasi per miracolo non cade tra i polsi arresi. Il risveglio, gustato intensamente come un graffio nell’anima, lo travolge e gli altera i sensi, ancora assonnato gira la testa tremante ed è cosi lontano ed ha una prospettiva sola, limitata di fronte alla porta della stanza che non riesce ad aprire, perché sconvolto. Rinuncia torna a sedersi. Frantumi di vetro gli scompongono tra le pareti della stanza la luce in unità, ognuna ferma immobile con la sua escandescenza li suggerisce un componente, non un personaggio ma una sintesi di condizione dove far muovere le loro figure, figli statici della fantasia. Naturalmente prende un pezzo di vetro, il più grande forse, comincia a muoverlo tra le altre raggianti, diverse per dimensioni, proiezioni. Questa sarà la condizione principale del libro la condizione dinamica, il viaggio. Lui è umano? L’io che si esprime e lo scrittore che sta dietro l’io, si sente in pace solo nella condizione ibrida, a metà viaggio. Un viaggio ipotetico, un viaggio nella struttura, nello stile, nel calcolo, nelle varie combinazioni di condizioni temporali e spaziali senza sostenere la trama, senza tragedia, senza scegliere nemici, passivo di posizioni, l’io evita ché  si descriva e rivela l’archivio di compromessi reali. Non avrebbe senso rimanere ad aspettare che il tempo passato ritorni. Decisamente l’assurdità è più comune di quanto appare. Semplificare per capire meglio ma semplificando si perde l’intensità. Mentre cammina su sabbia vulcanica, smaltisce aria speciale fatta di sogni lucidi che incriminavano di bassa temperatura gli atomi sensibili ala libertà. Noncuranza di fame, di bisogno, che urla nel vento fino a trasformare il mare in mercurio, cibo! Forse  dietro la terza luna assopito zoppicherai lo sguardo dentro la superficie della cabina; estendi le braccia meccaniche per aiutare un’idea rimasta incastrata dentro la cintura d’asteroidi. Il titanio scricchiola orgogliosamente trascinando svelto tra scogliera grigia e ponte di bordo l’immaterialità dell’ideale. L’euforia carica di velocità il sangue e la circolazione diventa sostenuta, ma non basta questo è solo il segnale che la mano ha afferrato energicamente il filo, è un idea gravida di tante piccole idee, comodo, scrivano, già situato nel mondo, operazione: completata.  
Il rigore meccanico ha il sapore di una corsa dove infiniti pistoni sudano una materia grassa dal gusto sapiente. Il colore non esiste. L’ombra non è diversità. Di fronte a me, lei con occhi di luce. Senza occhiali sono costretto per non addormentarmi a guardare il sole nero tra i suoi capelli. Provo una senzazione piacevole quando sai di avere un attenzione mascherata. La musica mi accarezza, sono contento, superficiale, di breve memoria, uno stato di grazia e per niente d’attesa. Mi emoziona il soprasso di un camion. L’autista corre, fischia la pressione che bilancia ad aria compresa i parametri degli ammortizzatori , la cosi detta spugna d’aria fa dondolare la motrice inebriata. Un Ulisse qualunque, che corre dalla sua Penelope o da una studentessa fuori sede. Il sedile è comodo, mi offre una visuale rialzata perché sopra le doppie ruote posteriori, sento sprigionare la trazione direttamente dal differenziale ma le marce automatiche dei moderni bus addolciscono la sfida ruotante alla gravità. Pian piano la spinta diventa leggera, nelle marce superiori il motore riposa producendo un rumore che gratta alla gola. Tossisco, nel muovere la mano per metterla avanti la bocca sfioro la borsa della ragazza seduta di fronte. Mi suona il cellulare e con l’altra mano cerco di prenderlo, la mia tosse non si placca, ho le mani occupate sono prigioniero delle necessità, non posso tossire senza la mano vicino e devo rispondere, può essere importante. Lei non si è accorta di me, non mi ha rivolto uno sguardo da quando è salita, però sa che sono di fronte come un qualunque passeggero, sta lì assorta tra le pagine di un libro. Cercando di estrarre l’apparecchio dalla tasca tocco il suo ginocchio, lei si distrae, mi guarda ancor prima di alzare del tutto la testa. Sto fermo in bilico tra le estremità del sedile, ho quasi i crampi dalla sensazione di essere scoperto anche se ben nascosto. Ormai lei mi guarda, forse aveva l’intenzione di rimproverarmi all’inizio ma adesso ride, la sua risata è di quelle acute, sinistra nella sensazione che ti avvolge soprattutto perchè ride di te non con te. Tutti gli altri studenti si girano mi guardano. Ghiacciato, immobile, pietrificato, cementato. Tutto diventa foderato di pelle nera, vetri graffiati da evidenti segni di unghie umane, la plastica nera lascia spazio al legno, il soffitto del veicolo sembra imitare le navate di una chiesa sconsacrata, l’autista ha un cilindro nero in testa e ride mentre maneggia delle leve. Il loro riso senza motivo, va avanti per un po’, all’improvviso lei zittisce di colpo la macabra allegria che propaga in cabina. Seria si alza e mi scarica una scossa vocale prolungata, semplicemente per la colpa di una piccola superficialità che ho avuto nel disturbarla mentre leggeva, Kafka. Non mi sono difeso. Ero estraniato perché mi sono reso conto che tutti nel bus erano tornati a leggere il Processo. Mi sono ripreso, la tosse si è calmata, il telefono squilla ancora. Rispondo. Mentre parlo al telefono mi sento straniero perché nella galleria il veicolo si trasforma in un enorme cabina telefonica in movimento, dalle porte alle luci, corazzato di nostalgia, le voci dall’altra parte commosse perché risucchiate dalla distanza, l’assenza nel vivere e condividere con loro il quotidiano, che a volte anche se sono un rifugio nella debolezza, e l’io che non scrive non si sente per niente una vittima, mi fanno piangere con certe lacrime bianche, color manicomio e profumano d’ospedale. Con la vista dell’università, accarezzata dai primi raggi del mattino primaverile, ecco che torna carica una proiezione mentale che si era scolpita nella mia materia grigia già dalle prime volte che avevo visto il campus. Un’immagine che viaggia insieme a me, con il posto dove sono seduto, con la ragazza con occhi di luce, con gli 10 maschi e le 12 ragazze che abitano questo viaggio, insieme ala plastica, al metano, al diesel, all’autista a cui è vietato parlare, ai tubi, alle ruote, alle superfici di vetro che per risparmiare il consorzio gli sostituisce con quelli di produzione cinese, al mio biglietto timbrato a mano, con l’obliteratrice, con la richiesta di fermata che per quanto i freni insistono a rispettare, non si può. Non volendo un ragazzo ha premuto il bottone sporgente rosso, come quelli delle centrali atomiche, muovendo il gomito sinistro fuori dal sarcofago della postura, mentre stava girando, ansioso di leggerla, ribellandosi agli altri lettori mobili del Processo, un altra pagina di Brecht. La strada si spoglia del guardrail, si entra nel viale largo, il bus sfila come una platea mobile tra palchi bidimensionali, i cartelloni pubblicitari si fanno lucidi, fischiano al vento perché li stenda con un morbido fruscio. Il più grande di loro ha come espressione di potere una cornice di fari.
Campus Unisa, orgia di conoscenze….    

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