lunedì 11 febbraio 2013
CILENTO VILLAGE OUTLET - IL MIRACOLO
EBOLI – San Nicola Varco, il Polo Agroalimentare, la discarica, il ghetto e nuovamente la discarica in attesa che si compia il miracolo del Cilento Village Outlet. L’ultima volta a darci il benvenuto furono un ammasso di bidoni blu con la scritta “Non disperdere nell’ambiente, sostanze altamente inquinanti”. Una volta dentro, superato il cancello, tutto era un collage di edifici tristi e abbandonati, vecchie roulotte, tende di plastica, box destinati alla vendita della frutta trasformati in stanze da enormi teloni e poi tutta l’oggettistica casalinga, radio, cd, coperte, e scarpe, una quantità enorme di pantofole e scarpe. I cumuli di oggetti e ferraglia stavano ammassati qua e la quasi a voler sfidare “La venere degli stracci” di Pistoletto. Chi aveva abbandonato quegli uomini e quelle donne a condizioni così pietose? chi li aveva costretti ad andar via con la forza e la fretta di far passare tutto in silenzio? chi aveva inventato questo posto cruento ma così vicino alla civiltà. Eppure in questo caos di oggetti e rovine si notavano ancora le tracce di quelle ottocento persone che avevano vissuto per dieci anni in quegli ambienti, con l’anima tra i denti per il duro lavoro nei campi e il “campo” dormitorio, dei prigionieri o dei moderni schiavi. In quella giornata fredda di dicembre del 2011 con il sindacalista Anselmo Botte e il giornalista Giuseppe Leone abbiamo avuto una sensazione di rabbia e di terrore, all’unisono: degrado programmato. Questa volta ci sono tornato da solo, è pomeriggio e fa meno freddo, la stradale 18 come al solito è molto trafficata. La sconosciuta traversa a 10 km da Eboli, che sconosciuta non lo è più. Il benvenuto stavolta è peggio di quello dell’anno scorso. Davanti al cancello ormai arrugginito si trovano due cumuli di gomme semi bruciate, che al centro formano pozzanghere nere. L’abbandono si sente nell’aria: l’erba alta non riesce a nascondere nel proprio seno le pile di vecchie carcasse di ogni genere, dall’elettrodomestico marcio di ruggine allo scheletro di un vecchio furgone ribaltato e gomme, gomme di ogni dimensione come compagne inseparabili; ma ancora più inquietante è il magazzino del vecchio Polo Agroalimentare, pieno di marciume, strati di materassi che salgono verso lo strato più recente delle gomme bruciate come una geologia della spazzatura. Questa è una storia sbagliata, dal principio. Negli anni 80 furono spese decine di miliari di vecchie lire per la costruzione di un Polo Agroalimentare per il sviluppo della zona che ha un carattere agricolo non indifferente. Sull’onda del fiume di soldi sprecati in maniera misteriosa per lo sviluppo del meridione e proprio sul più bello quando mancava poco per mettere in funzione il nuovo complesso furono rubate tutte le attrezzature. Di conseguenza quello spazio così desolato era destinato al non senso e al degrado. Verso la fine degli anni novanta i braccianti stranieri che lavoravano come manodopera nei campi attorno trova proprio lì un rifugio, forse precario ma tutti si arrangiano come possono negli ambienti umidi e freddi di quello che diventerà il ghetto di San Nicola Varco, tutto intorno è indifferenza. Ottocento persone per venire in Italia hanno avuto il nulla osta dal Centro per l’impiego pagando migliaia di euro ad un mediatore, hanno avuto un visto rilasciato dal Consolato Italiano presso i paesi d’appartenenza; una volta arrivati però l’indirizzo dell’azienda che ha stipulato il contrato non esiste, il telefono squilla a vuoto, così lo straniero dopo otto giorni è clandestino e può essere arrestato perché in fragranza di reato: perciò il ghetto è una questione istituzionale. Nel frattempo la Regione Campania spende 300 mila euro solo per rifare il progetto della ri-messa in funzione del Polo Agroalimentare. L’undici novembre del 2009 dopo una serie di incidenti, e incendi che scoppiavano all’improvviso durante le buie ore della notte, quelle poche ore di riposo, un numero consistente di forze di polizia, finanza e carabinieri, all’alba sgomberano i “clandestini” di San Nicola Varco. Il Sindaco di Eboli Martino Melchionda grida alla bonifica, mentre la fila dei disperati cammina lenta fino alle camionette, nelle mani quel poco da portarsi dietro, infilato in fretta in uno zaino o in una busta di plastica. Dopo aver vissuto in Italia per quasi un decennio, truffati da tutti, stranieri o italiani che fossero, si sono adattati a sopravvivere lavorando in condizioni estreme, vivendo forse solo per non morire, sgomberati per i dieci anni di sacrifici fatti, poi premiati con mille duecento euro e infine rimpatriati. Nella strada di ritorno una torre alta come un palazzo di quattro piani innalza al cielo una scritta fucsia dal gusto barocco “Cilento Outlet Village”. Attorno il cantiere è in attività con i lavoratori che si danno un gran d’affare, ma io immagino già le lunghe file di consumatori, gli amanti dello shopping e del tempo ricreativo nel Cilento Village. Durante la presentazione pomposa del 2009 all’Hotel Bulgari di Milano le cifre sono da capogiro: un’area estesa per migliaia di metri quadri e più di 500 posti di lavoro nuovi di zecca, 60 milioni le entrate previste in un anno, 80 milioni la somma da investire. Da notare l’anno coincide con lo sgombero di San Nicola Varco. Quale mentalità economico-politica può portare un investimento a fianco ad una discarica? Perché per una tale operazione commerciale non si cerca di recuperare un’area degradata che si trova a fianco al cantiere ma ne cementificano una molto più grande? Il dubbio parte dalla dubbia gara di assegnazione di cui non si possiede alcun dato che ne chiarisca i criteri stessi per l’attribuzione e la variazione del piano urbanistico. Naturalmente quando si scopre che a realizzare il Cilento Village sono la “Promos” del bresciano Carlo Maffioli coinvolto per Tangentopoli (arrestato nel 1995 in merito al caso della cupola di Nerviano in provincia di Milano). Ma soprattutto l’immobiliare “Irgenre” del napoletano Paolo Negri. “Un nome noto quello dei fratelli Negri, legati a doppio filo attraverso un fitto castello di imprese e scambi di incarichi amministrativi a Sebastiano Sicignano, commercialista ampiamente citato dalle relazioni dell’antimafia nella proposta di soggiorno obbligato e sequestro dei beni di Domenico Barbato, che la stessa commissione definisce organicamente legato al (ex) clan Alfieri- Cesarano” (dal blogger Nicola Angrisani, 2009). Non solo l’amministratore unico della N.A.C costruzioni s.r.l. di Milano Sebastiano Sicignano è colluso con la camorra vecchia e nuova per le vicende di Ikea ad Afragola e della grande struttura commerciale Città Mercato a Pompei, ma è “ inserito in una fitta rete di società composta da ben ventiquattro ditte di cui è dubbia la titolarità e risulta collegato attraverso le società GEN.IM, SOGEST, Adroma Costruzioni, Adroma Immobiliare, Adroma Impianti s.p.a., Promhotel s.r.l. e C.E.G. s.r.l., ai fratelli Negri Bruno, Corrado, Paolo e ai menzionati Barbato Domenico e Imparato Paola. Le strette cointeressenze economiche, affaristiche e societarie tra il Sicignano Sebastiano della N.A.C. costruzioni con il Barbato Domenico e con i fratelli Negri è quindi oltremodo evidente (Atto n. 4-06272 Pubblicato il 3 marzo 2004 Seduta n. 553 Senato della Repubblica). Inoltre i fratelli Negri sono stati già incriminati per l’affare della Città Mercato a Pompei. Forse sembrerà strano ma sono stati proprio gli stranieri sgomberati da San Nicola Varco gli unici che si sono opposti a tale progetto, perché gli incendi non sono più un mistero e oggi sappiamo che il Sindaco Melchionda gridò in nome della bonifica dell’area perché aveva interessi come proprietario (seppur come parente di un proprietario) sull’appezzamento di terreno dove oggi si costruisce l’outlet. Le istituzioni hanno sgomberato 800 braccianti stranieri; la cura si chiama Cilento Outlet Village, la spazzatura è ancora lì a due passi: a quando la prossima bonifica? Dopo tutto questa è una storia sbagliata. Sir Wiliam MacPherson sintetizza bene il concetto: Il razzismo istituzionale è stato definito come quel complesso di leggi, costumi e pratiche vigenti che sistematicamente riflettono e producono le disuguaglianze nella società. Se conseguenze razziste sono imputabili a leggi, costumi e pratiche istituzionali, l’istituzione è razzista sia se gli individui che mantengono queste pratiche hanno intenzioni razziste, sia se non le hanno.
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